Priorità e sfide del diaconato nella Chiesa italiana

 

Parlare del diaconato nell’attuale contesto storico ed ecclesiale del nostro Paese significa prendere innanzitutto consapevolezza delle profonde sfide che la società in cui viviamo, segnata da una forte secolarizzazione e da un diffuso relativismo, pone oggi al ministero diaconale e alle priorità che devono caratterizzarne la presenza ed il ruolo nella comunità cristiana e nella collettività sociale. Trattandosi, dunque, di una riflessione che non può non tener conto della realtà in cui la diaconia sacramentale deve “incarnarsi” per essere espressione della diaconia di Cristo in mezzo agli uomini, ritengo sia necessario preliminarmente analizzare – in modo sintetico ma significativo – il cammino della Chiesa italiana alla luce degli orientamenti che in questi anni l’episcopato ha maturato ed offerto alle nostre chiese locali.

 

Roma, Loreto, Palermo, Verona: i quattro convegni della Chiesa italia­na sono da considerarsi come momenti emergenti della rice­zione del Concilio Vaticano II nel nostro Paese. Quattro convegni, quattro piani pastorali che hanno segnato il cammino delle nostre comunità nei decenni trascorsi dall’evento conciliare: «Evan­gelizzazione e sacramenti» (anni ‘70), «Comunione e comu­nità» (anni ‘80), «Evangelizzazione e testimonianza della carità» (anni ‘90), «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia» (2000), e per il prossimo decennio «Educare alla vita buona del vangelo» (2010).

 

Come è stato più volte osservato, senza le aperture e gli orientamenti del Concilio queste manifestazioni, che costitui­scono l’originale “via” italiana, non avreb­bero avuto luogo.

 

Si sa che la ricezione dei concili, in particolare di un con­cilio di transizione e di natura pastorale come è stato il Vaticano II, è sempre lenta e difficoltosa. I “fram­menti” di cui sopra forse sopravvivono ancora, e certo possono aver determinato non poche resistenze, almeno nel percorso posto in atto dai primi due convegni.

 

Luci ed ombre hanno quindi accompagnato il cammino ultraquarantennale della comunità cristiana nell’Italia del post-concilio, un percorso che ha evidenziato alcune questioni fondamentali, ancora oggi presenti, come quello di concentrare  la pastorale sulla pratica sacramentale-liturgica.

 

Sulla scorta di tali acquisizioni, cominciava dunque un cammino difficile, ancora in atto, che si è via via andato qualificando anzitutto come un impegno di prima evangelizzazione.

 

Il primo documento della CEI, pubblicato nel 1973 col titolo Evangelizzazione e sacramenti, con insistenza ribadiva «il necessario pri­mato dell’evangelizzazione»[1].

 

Si imponeva un chiaro cambiamento. Non si poteva più continuare come nel tempo in cui la fede era anche un fatto sociologico e si trasmetteva quasi automaticamente di gene­razione in generazione. La Chiesa italiana si interrogava sulle nuove esigenze dell’evangelizzazione nel mondo del lavoro, della cultura, della liturgia, dell’emarginazione, della fami­glia, della presenza e del ruolo della donna, dell’impegno politico… con un costante riferimento al problema della promozione umana. Evangelizzazione epromozione umana: le due azioni anda­vano viste nella loro continuità e con
nessione interna. Più volte si sottolineava la forza di quell’«e» che legava stretta­mente insieme i due campi di azione, di annuncio e testimonianza di una fede incarnata nella storia.

 

La promozione umana (si scartò volutamente il termine troppo forte e forse polemico di “liberazione”) fu presentata decisamente come parte integrante dell’evangelizzazione, secondo una dizione già in voga allora e che troverà sempre più ampie conferme nel futuro; Giovanni Paolo II arriverà a parlare più precisamente di “parte essenziale” della missione ecclesiale. Al di là della terminologia, si prendeva decisamente atto che non si tratta­va di attività senza rapporto fra loro, ma di dimensioni com­plementari dell’unico annuncio di salvezza.

 

L’accentuazione dell’impegno storico si inseriva in quel vasto movimento di pensiero e di azione che, a partire dall’inizio degli anni ’70, accoglieva sensibilmente le teologie della speranza “politica” e della liberazione che, provenienti da parti diverse, convergevano tutte nell’affermazione della necessità di coniugare insieme la fede e l’impegno nella sto­ria. Il mondo non è soltanto da contemplare, ma da trasformare nella fedeltà a Dio e all’uomo.

 

È del dicembre del ‘71 il documento fondamentale della reintroduzione del diaconato nella Chiesa italiana, La restaurazione del diaconato permanente in Italia. Il diaconato, in esso, è visto come il dono di una “grazia sacramentale” destinata a rendere “più profonda la comunione ecclesiale”, a “ravvi­vare l’impegno missionario”, a promuovere “il senso comunitario e dello spirito familiare del popolo di Dio”, ad “accentuare la dimensio­ne comunitaria e missionaria della Chiesa e della pastorale”, col fine di “una più diffusa evangelizzazione”, per “la salvezza dell’umanità” (cfr. artt. 6. 8, 9, 16). Secondo l’indirizzo dell’episcopato, il diacono deve promuovere una “presenza pastorale capillare” (art. 16) e diventare l’animatore di “comunità minori”, viste soprattutto come articolazioni delle parroc­chie (art. 19). Molti ed interessanti erano i temi che avevano in questo ministero il loro punto focale: con un’espressione che li racchiude sinteticamente, c’era da stabilire e ripensare da una parte l’impegno dei diaconi intesi come parte determinante dell’azione della Chiesa, e dall’altra le modalità per ravvivare l’impegno missionario delle comunità.

 

Se la scelta dei poveri rimaneva prioritaria nell’agenda della comunità cristia­na – prioritaria anche oggi, eppure sempre esposta al rischio di essere disattesa! –, per quanto concerneva più a fondo la funzione della Chie­sa si prendeva gradualmente sempre maggiore coscienza della sua missione salvifica. «Servire l’umanità è la ragione stessa dell’essere Chiesa», affermava p. Sorge in quella che è stata chiamata ufficialmente la “sintesi dei lavo­ri del primo convegno di Roma del 1976”, ma che in realtà fu forse il momento cul­minante e decisivo del convegno stesso. Un cammino aperto su un presente da conoscere e migliorare e affacciato su un futuro da costruire secondo orientamenti nuovi e coerenti.

 

Gli anni ‘90 si aprono con la pubblicazione di un documento dedicato a Evangelizzazione e testimonianza della carità. Ancora il tema dell’evangelizzazione in evidenza, come un grande contenitore che racchiude l’intera ricezione conciliare da parte della Chiesa italiana. Ma l’attenzione si concen
tra ora sempre di più sulla “testimonianza”, la via maestra per rendere visibile ed efficace l’opera di annuncio e di catechesi[2]. Ma veniamo al diaconato. Nel documento ETC veniva dichiarato esplicitamente che i vescovi intendevano offrire per gli anni a venire speciale attenzione ai diaconi, segno della Chiesa che serve in mezzo ai fratelli (n.26). Non solo, ma in ON veniva affidato loro un particolare servizio per l’educazione dei giovani al vangelo della carità (n. 40) , consegna a mio avviso – in parte disattesa – che richiamava direttamente la necessità di un agire, valorizzando gli ambienti educativi ed i luoghi dove i giovani vivono, operano, crescono e si incontrano. Oltre che ispirato ed evangelicamente sapiente questo richiamo dei vescovi, andava qualificato con competenza, per la quale spesso non basta la semplice “buona volontà” del singolo ministro, ma necessita dell’impegno della comunità diocesana di “formare i formatori”[3] – un intervento di “investimento” a lungo termine – per i nuovi tempi e le nuove esigenze che i diaconi si trovano a dover affrontare per poter puntare su proposte essenziali e forti.

 

La questione della corrispondenza tra ministero e testimonianza[4] ripropone quindi il tema antico – drammatico ed irrisolto – della formazione dei candidati e dei diaconi già ordinati. Formare alla vita unitiva con Cristo servo non è affare da poco e, soprattutto, non consiste in un indottrinamento sterile, ma in un serio itinerario formativo[5], capace di un discernimento spirituale che permette di orientarsi nel ministero diaconale secondo criteri omogenei e scelte unitarie.

 

Non può passare sotto silenzio, a tal proposito – anche se duole dirlo – che dai luoghi preposti alla formazione, con le prevedibili eccezioni, oggi sta venendo fuori una generazione di diaconi poco plasmati dal primato della Parola, intenti a favorire pratiche devote, aggrappati a rassicuranti strettoie liturgiche, orientati verso un impegno pastorale ripetitivo, formale, attenti a sopravvivere nel “già si è visto”, galleggiando tra merletti e stole ricamate.

 

In questa visione di professionalizzazione, poco ecclesiale e affatto testimo­niale, e in ogni caso poco attenta alla complessità della vita, s’inco­raggia il ruolo clericale, accentuando l’aspetto cultua­le e formale di chi si appaga di officiare in abiti sacri nelle ceri­monie solenni con il vescovo, oppure enfatizzando l’aspetto intimistico svincola­to da ogni riferimento alla Parola e alla vita. Insomma, si privilegia l’appari­re, il riuscire, il presenzialismo che esalta le molteplici incomben­ze esteriori, rinchiudendo tutta la prassi pastorale in consuetudini abitudinarie o nell’andazzo di una pastorale di conservazione, piuttosto che in un vero e paziente servizio ministeriale kerygmatico e missio­nario.

 

Ci si lascia asservire, così, da una tendenza cultualistica/ritualistica – sempre pronta a riemergere – che rischia di vanificare la grazia sacramentale; è una sorta di tributo da pagare alla deriva clericale di una stagione ecclesia­le segnata ancora da trionfalismo e da giuridicismo, che si accontenta di pronunciamenti dottrinali rassicuranti, di appelli morali gridati e convenzionali che non lasciano alcuno spazio alla profezia o alla “santa” inquietudine della conversione, ingessando, come piace dire a don Bellia, il ministero stesso. In questa condizione di staticità infeconda, anche la vita interiore rischia di diventare qualcosa da svolgere secondo un agevole copione, che si accontenta del formale e si limita al dovuto, con la conseguenza triste ed inevitabile che i diaconi svuotano il loro ministero della “forza” che gli è propria per esercitarlo quasi come il prolungamento dei bisogni presbiterali.

 

La questione forse prioritaria per il diaconato, soprattutto in questo tempo drammaticamente segnato dalla globalizzazione, è  la scelta dei poveri, un tratto che contraddistingue la comunità cristiana fin dalle sue origini. Di fronte ad una sorta di “povertà di ritorno” che si accompagna alle molteplici e diverse forme di nuove povertà, come diaconi siamo sollecitati ad una vera e propria conversione di pensieri e di atteggiamenti. Gli ultimi dati ci dicono che in Italia ci sono otto milioni di persone sulla soglia della povertà. Tre milioni non hanno nulla. Tali disagi hanno investito anche i diaconi, soprattutto quelli che svolgono il loro servizio a tempo pieno o sono in pensione. Molti mi hanno scritto che quest’anno non potevano venire al Convegno (nonostante i prezzi contenuti) per ragioni economiche. Ritengo urgente, in tale situazione, mettere in moto una solidarietà diaconale che vada oltre le nostre comunità parrocchiali e diocesane. Ma dentro il grande contenitore di una crisi che sappiamo generalizzata, esistono situazioni differenti di sofferenza e livelli diversi di disagio[6].

 

Varie e complesse sono oggi le situazioni di povertà presenti sul territorio: da quella economica – che tocca soprattutto disoccupati, pensionati, persone che soffrono per mancanza o ristrettezza di alloggio, persone che risentono della inadeguatezza delle strutture di assi­stenza e sanitarie – a quella sociologica, che scaturisce dal rifiuto sociale e sfocia nella “emarginazione” di immigrati, nomadi, disabili, barboni; da quella morale, legata all’incapacità di liberarsi da condizionamenti di abitudini, vizi, situazioni immorali, alla povertà di salute – che riguarda gli infermi, estremamente bisognosi del conforto dell’amore e della fede –, fino a quella di ambiente affettivo, che affligge particolarmente quanti (come gli anziani soli), anche in presenza di un’assistenza tecnicamente sufficiente, soffrono l’isolamento e la triste condizione del “non sentirsi amati”. Non manca, poi, nel multiforme panorama delle povertà del nostro tempo, la povertà spirituale, cioè il bisogno di Dio, dell’Infinito, del Bene asso­luto, non soddisfatto da una società edonistica e pagana, e che spesso con­duce a forme deviate e superstiziose, quando non sia abbastanza presen­te la comunità cristiana con la testimonianza del Signore. Distrarre l’attenzione da queste problematiche, volgere il capo altrove davanti ai poveri che ci scomodano dalle nostre viziate certezze, ingannerebbe il nostro sguardo sul mondo e paralizzerebbe il nostro servizio, rinchiudendolo in spazi colpevolmente “esclusivi” il che vanificherebbe ogni possibile discorso sulla “speranza” che – come diaconi – siamo chiamati e mandati a portare a tutti. In un passaggio del messaggio che i partecipanti al IV Convegno ecclesiale di Verona hanno consegnato alle chiese parti­colari a conclusione dei lavori, si parla della priorità della solidarietà che si china sul po­vero e sull’ammalato come espressione di fra­ternità. Se di fatto al Convegno non si è parlato esplicitamente di diaconato, credo che in questo brano del messaggio conclusivo si possano trovare molti elementi che aprono una prospettiva per il futuro del diaconato nella Chiesa. Il primo numero (166) della Rivista di quest’anno (per non dimenticare) porta proprio il titolo “Un impegno dal Convegno di Verona: ridare speranza ad ogni fragilità”.

 

Nell’ambito del Convegno, infatti, sono state proposte alcune specifiche linee-guida lungo le quali il diaconato potrà muoversi ed operare, rivelandosi tra la gente quale autentico mi­nistero di umanità e di condivisione. Tra queste linee, al primo posto si pone:

 

    il recupero, nella prassi ordinaria (non solo comunitaria), del primato dell’ascolto della Parola di Dio, della preghiera, della comunione alla mensa euca­ristica, della spiritualità alimentata dallo studio, dalla vita sacramentale, dal di­scernimento comunitario e subito dopo:

 

    l’invito esplicito rivolto alle comunità ecclesiali di dare accoglienza ed assicurare al diaconato lo spazio che gli spetta, per contribuire al riconoscimento del valore e dello straordinario rilievo di questo ministero proprio “per il” e “nel” servizio alle persone fragili.

 

Questa attenzione, se non rimane mera dichiarazione di intenti, può essere davvero molto eloquente e stimolante per una rinnovata promozione del diaconato nelle nostre comunità. Io la chiamerei la sfida della fragilità per il nostro ministero, nella comunità e nei luoghi d’incontro della gente e con la gente. Una sfida da cogliere, per non mancare l’appuntamento con “l’incarnazione nella realtà” di cui tanto sentiamo e amiamo parlare, sperimentando spesso una carenza di slancio missionario che certamente debilita la diaconia ordinata.

 

Educare alla vita buona del vangelo è lo specifico impegno della Chiesa italiana per il decennio appena iniziato. Fiducia e speranza, dunque, si richiamano reciprocamente e sono il segnale identificativo di un rapporto educativo efficace e vibrante di umanità.

 

L’identità della persona si costruisce lungo il corso della vita, nelle varie esperienze – gioie e speranze, tristezze, ango
sce, fatiche e dolori – che nei vari ambienti ciascuno quo­tidianamente vive e sperimenta. I diaconi, educati nella luce del Vangelo ed insieme educatori ai valori evangelici, si devono prendere cura dell’interezza della persona, nei vari momenti – anche contraddittori o comunque drammatici – della sua esistenza: non può, l’educare, dimenticare la vulnerabilità che accompagna le diverse tappe del vivere, del nascere come del morire, anche metaforicamente intesi.

 

La fragilità, e le varie esperienze che la richiamano, è una grande sfida anche per la fe­de nel Dio di Gesù Cristo e per l’agire edu­cante della comunità cristiana. Un’educazio­ne e un impegno dei diaconi che rimuovesse questa dimensione costituti­va della vita, rischierebbe di far crescere, nonostante le buone intenzioni, persone fra­gili di fronte al dolore ed incapaci di “com­-passione”. Dentro una “pastorale diaconale”, questa attenzione ai momenti fragili della vita, e al­la fragilità delle persone che ne sono coin­volte, non può mancare.

 

Così è anche per le domande che nascono dalla sofferenza e dalla morte (e dalla sof­ferenza del morire): sono le doman­de vere che la comunità cristiana de­ve ascoltare, che i diaconi devono ascoltare. Sono soprattutto do­mande di una relazione che aiuti a vivere la radicale solitudine del mo­rire. È a partire da questa domanda che si può scoprire la Chiesa, soprattutto tramite il ministero diaconale, come comunità sanante e compassionevo­le, materna e ospitale, che conforta e consola, e che continua a prendersi cura dei suoi figli fino all’ultimo istante della loro vita ed è attenta al­la vita buona di coloro che li assi­stono e li curano.

 

L’espe­rienza della fragilità, del limite, della malat­tia e della morte può insegnarci, e parlo oggi per esperienza personale,  che non sia­mo eterni ma siamo pellegrini in questo mon­do; che non siamo onnipotenti ma che, nonostante i progressi della scienza e della tec­nica, la nostra vita non dipende solo da noi; che i beni più importanti sono la vita e l’a­more e che la malattia può farci riscoprire le cose che contano davvero.

 

Si tratta di una testimonianza spesso silenziosa, sussurrata, discreta, ma allo stesso tempo forte e capace di dare – per il solo fatto di esserci – risposte di speranza che giungono a destinazione passando per i sentieri nascosti e a volte schivi dell’anima. Una testimonianza spesso offerta nelle istituzioni sanitarie, dove molti fratelli diaconi svolgono il loro ministero pren­dendosi cura della persona umana nella sua interezza, delle sue di­mensioni fisiche, psicologiche, socia­li e spirituali e del loro reciproco influenzarsi nelle fasi della non di rado estenuante alternanza salute/ma­lattia.

 

Fiducia e speranza, dunque. Due coordinate che orientano la pastorale della Chiesa e la ministerialità diaconale soprattutto nel nostro tempo. Ecco allora l’appello conclusivo dei vescovi italiani nel documento Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno, a vent’anni dalla pubblicazione del documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno: Bisogna osare il coraggio della speranza! Vorremmo congedarci da voi incoraggiandovi a uno a uno, carissimi, con le stesse esortazioni della Scrittura. Anzitutto scriviamo a voi, sacerdoti […]. A voi associamo nel nostro ricordo e nella nostra preghiera quanti faticano a servizio del santo Vangelo e dei poveri, cominciando dai diaconi, eletti dispensatori della carità[7].

Tra le molteplici e interessanti tematiche del documento, vogliamo fermare l’attenzione su due aspetti che riaffermano ancora una volta il ruolo ed il servizio che i diaconi sono chiamati a realizzare nella Chiesa. Un ministero, quello diaconale, che riassume in sé l’infaticabile passione per il Vangelo e per  i poveri da un lato, e dall’altro la convergenza tra «comunione» e «diaconia»: in una parola, la condivisione ecclesiale del servizio e l’amore spirituale e concreto del prossimo, nello sviluppo di una dimensione comunionale che vada oltre la singola comunità per farsi “scambio tra singoli fedeli, comunità e Chiese sorelle”, perché proprio “a partire dalla comunione di fede e di preghiera, potrà realizzarsi anche in Italia un mutuo scambio di sacerdoti, di diaconi permanenti e di laici qualificati che, spinti dalla carità, guardano oltre il proprio campanile e si prendono a cuore le sorti di chi è lontano”[8].

Si tratta, quindi, di sviluppare con maggiore slancio e consapevolezza il rapporto di reciprocità e lo stretto legame esistente tra il ruolo del diaconato e la missione globale Chiesa, tra il modello di diaconato da perseguire e il modello di Chiesa cui tendere instancabilmente, mettendo in risalto non solo che la presenza del diaconato può favorire un cammino ecclesiale più vivace e fecondo, ma anche un percorso inverso, cioè  che “il diaconato può dare i suoi frutti migliori nel contesto di progetti pastorali improntati a corresponsabilità e nei quali il ministro ordinato sia chiamato ad animare e a  guidare – non a sostituire – la vivacità degli impulsi che lo Spirito suscita nel popolo di Dio”[9], generando, quindi,  comunione, sia con Dio sia tra la gente. E i diaconi sono chiamati a vivere in simbiosi con la gente, con la loro casa fra le case, con la vicinanza agli avvenimenti familiari lieti e tristi, con la disponibilità all’ascolto e all’accoglienza soprattutto delle persone in difficoltà, con la disponibilità a passare per le case. È sempre più frequente che i diaconi siano inviati dai parroci nel periodo pasquale a benedire le famiglie là dove esse abitano. La parola “gente”, come la parola “mondo” è carica di ambivalenza, e solo il contesto ne precisa il significato.

 

Nei Vangeli è narrata tanta simpatia di Gesù per la gente. È interessante prendere sul serio la singolare domanda che Gesù rivolge ai suoi discepoli: “chi dice la gente che io sia?” Pertanto, non è per nulla innocuo chiederci come diaconi come ci vede la gente. Una disamina onesta, nel divario tra ciò che la gente vede e ciò che profondamente ci sentiamo di essere, può costringerci ad un austero ripensamento su noi stessi, la nostra fede e il nostro ministero. È una cartina al tornasole stimolante. Può crollare, infatti, tutta una impalcatura che ritenevamo solida. Possiamo sorprendentemente scoprire che la nostra immagine non è per nulla significativa per la gente.

 

            È indispensabile ed urgente, allora, interrogarci sul servizio che, come diaconi, abbiamo offerto alla comunità cristiana e al mondo in questi decenni postconciliari, per capire in che misura abbiamo contribuito ad allargare l’orizzonte della diaconia di Cristo all’intera vita e missione della Chiesa in questo nostro tempo. Capire, cioè, se attraverso il nostro agire è maturata nelle nostre comunità una “coscienza diaconale”, ovvero la consapevolezza della comunionalità che si traduce nella partecipazione e nella corresponsabilità a tutti i livelli e nelle sue diverse forme.

 

            Certamente una manifestazione visibile e concreta della Chiesa come comunione – la più alta e autentica – è la celebrazione eucaristica. Lì la Chiesa viene compresa (o almeno così dovrebbe essere, ma non è sempre scontato) non come privilegio né come potere, ma come una sfida e un compito. È una sfida ad essere sacramento di comunione nel nostro mondo così frammentato e diviso. Tutti siamo chiamati al servizio nella comunione, perché è nella fraterna «koinonìa» che si apprende e si esercita la «diakonìa» cristiana.

 

            Su questa frontiera difficile ma ineludibile si consuma, oggi, per i diaconi la sfida della missione: per servire il Vangelo e i poveri, essi devono “uscire dal tempio” e diventare uomini della strada che vanno da Gerusalemme a Gerico, ovvero da Gerusalemme ad Emmaus, per farsi buon Samaritano, compagni di viaggio di chi è tormentato dal dubbio, dall’insicurezza del futuro, dalla difficoltà a trovare lavoro, dalla paura di perderlo e di non poter provvedere alla propria famiglia, dall’arroganza della minaccia mafiosa di fronte alla quale si resta il più delle volte soli… dai molti interrogativi riguardanti la verità di Dio operante nella storia dell’uomo attraverso segni visibili e scelte concrete, e il senso di un presente da migliorare e di un futuro da progettare e costruire insieme. È questa una forte provocazione per evitare, come dicevo prima, che il diacono si chiuda nel recinto del sacro, ma al contrario si faccia ministro di una Chiesa che è chiamata – come amava ripetere Giovanni Paolo II – a trovare se stessa “fuori” di se stessa.

 

E proprio questa dovuta e necessaria conversione verso i poveri, deve collocare i diaconi nel loro giusto contesto ecclesiale e ministeriale, per rendere visibile lo stretto legame della mensa del corpo di Cristo alla mensa dei poveri, e dell’eucaristia alla carità[10].

 

Questa assimilazione sacra­mentale a Cristo non è un fatto sog­gettivo e impalpabile che accade nel vuoto della storia, ma un evento che si compie nella realtà concreta di una determinata chiesa locale, e in assenza di  questo respiro ecclesiale, le opere di carità rischia­no di ridursi ad espedienti organizzativi rivolti a lenire i bisogni solo materiali e comunque momentanei dei poveri. Senza crescita ecclesiale, il servizio dei diaconi rischia di essere frainteso e diventare un sor­ta di impegno “su commissione” de­stinato a risolvere, seguendo scelte ispirate o dettate dall’urgenza, i bi­sogni contingenti e i problemi occasionali e logistici delle singole chiese. Come, purtroppo, spesse vol­te, è accaduto. La diaconia secon­do il modello conciliare, invece, è una riproposizione del “comandamen­to nuovo” consegnato da Cristo ai suoi discepoli, e in tale contesto la testimonianza del ser­vizio diaconale è destinata a diventare il segno storico: profezia e, insieme, impegno concreto. Se per i laici l’impegno nel mondo è un campo d’azione oltre che possibile anche doveroso, più articolata e complessa si presenta la questione per i diaconi, i quali, come segno dell’amore di Cristo soprattutto per i poveri e i bisognosi, sono costantemente chiamati a preoccuparsi del senso della vita dell’uomo in qualsiasi condizione egli venga a trovarsi.

 

E qui si profila una sfida profonda e radicale[11]. I mutamenti storici che segnano le società del nostro tempo e la realtà ecclesiale ci devono spingere e convincere a maturare un profilo diaconale per certi versi nuovo, che scaturisca dalla scoperta e messa in atto delle potenzialità di servizio richieste da un tessuto sociale come quello odierno, troppo spesso dominato dall’interesse e lacerato dal compromesso e dalla prevaricazione: è proprio qui, infatti, in mezzo agli uomini che lavorano, soffrono, vivono la loro ricerca di senso, che il diacono è chiamato a testimoniare lo spirito delle Beatitudini e a rivelare con la sua presenza il Cristo-Capo, ed in quanto Capo-Servo, diacono di un mondo nuovo, tutto da costruire. È innegabile che per il suo essere “nel mondo”, impegnato su fronti difficili e chiamato a difendere il valore della persona “in situazione”,  il diacono vive le tensioni di un continuo confronto con i conflitti inevitabili nel progredire della storia. Per lui, come per altri, c’è il rischio di inasprirsi in essi, allentando talvolta i legami della speranza e sperimentando anche il disagio – tutto umano – della solitudine.

 

Mi sembra giusto, in questo contesto, aprire una parentesi di rilievo
per mettere in evidenza e cogliere il concreto e frequente di­sagio dei diaconi nel rapportarsi soprattutto con le altri componenti ministeriali.  Ma allora, come servire, se siamo noi per primi in situazione di disagio?

 

Domanda inquietante, ma certamente non distante dall’esperienza quotidiana di molti di noi. Una risposta possibile, forse l’unica soluzione da percorrere, è che oc­corre accettare di essere disorientati per affinare i sensi e lo spirito nella ricezione di difficoltà che sono degli uomini che incontriamo e ai quali dobbiamo annunciare la speranza e portare la carità di Cristo. Accettare di essere disorientati, dunque, ben chiarendo però che “accettare” non è “approvare”: è conoscere le situazioni, entrare nel disagio, comprenderne ragioni e criticità, guardarlo nella luce del Vangelo, coglierne le possibilità risolutive ed agire in loro favore, coniugando giustizia e carità e senza mai deporre la forte mitezza delle Beatitudini. Lascio ad ognuno di voi il compito di ripercorrere, nella vostra mente, le tante situazioni di difficoltà e sofferenza che attraversano l’esercizio del ministero diaconale nella comunità di appartenenza.

 

Ma quanto disagio può portare, ad esempio, lo sconfortato pessimismo che addita ogni nostro sforzo come inutile e destinato a fallire o ad essere schiacciato dalle spinte di un mondo che viaggia in direzioni altre dalla fede! Un pessimismo dimentico della speranza evangelica e debolmente radicato nella fede, perché il cristiano procede come chi rema, volgendo le spalle all’approdo (Kierkegaard) e al tempo stesso sicuro del porto cui è diretto. Possiamo allora vivere la condizione di disagio come un tempo di “prova-tentazione”. L’essere vagliati come il grano deve farci più pronti a «servire», e se sull’immediato siamo nella difficoltà, il rimanere innestati in Cristo ci dà la linfa vitale e sempre nuova per essere veri diaconi.

 

II disagio, dunque, è un’occasione di grazia, ed ogni tempo è sempre stagione di salvezza: nonostante le nostre lamentele e le nostre de­monizzazioni, questo tempo è tempo benedetto da Dio. E questo è un grande monito per tutti: invece della triste lamentela condita da recriminazioni, in cui spesso cadiamo – vuoi per stanchezza vuoi per la tentazione di conformarci al mondo – voglia­mo seriamente vivere il coraggio del Vaticano II per affermare anche noi, concretamente, che servire significa «donare con gioia» (2Cor 9,7), sapendo di avere un fondamento saldo, una radice forte e un progetto da realizzare insieme per il bene, sulla base della fedeltà di Dio. Alle comunità ecclesiali, a cominciare dal tessuto delle parrocchie, è affidata la missione di curare la qualità della vita spirituale e dell’azione pastorale, promuovendo forme di condivisione e di scambio che accrescano il senso della comunione e fermentino la coscienza e la responsabilità in tutti gli aspetti della vita sociale e civile[12]. Questa è la “nuova frontiera” della diaconia ministeriale. Con queste sottolineature, bisogna rileggere il vasto mondo delle parrocchie e dei territori nella prospettiva del “laboratorio di relazioni”, per ribadire da un lato la centralità dell’uomo – che nella relazione realizza la sua identità di persona – e dall’altro la funzione storica di una Chiesa esperta in umanità e nel contempo sempre pronta ad interpellarsi di fronte agli eventi e sempre protesa verso l’incontro con gli uomini. Questo presupposto deve muovere nei diaconi una tensione positiva, un nuovo slancio missionario teso all’individuazione di alcuni più specifici ambiti di lavoro pastorale scelti come sperimentazioni-laboratori, all’interno della comunità, a servizio della cura delle relazioni e delle collaborazioni, improntate alla concretezza dei rapporti interpersonali immediati, in modo tale da rendere la “condivisione” di ogni gioia e di ogni dolore un percorso non ipotetico o affidato alla buona volontà di alcuni, ma concretamente possibile, accogliente e risanante. E una tale impostazione pastorale si realizza non nei locali delle nostre parrocchie (non solo, almeno), ma nei quartieri, nei caseggiati, nelle famiglie, nelle zone territoriali più lontane dalla parrocchia, per portare alla graduale trasformazione organizzativa della comunità. È proprio in questa prospettiva, orientata a coniugare l’annuncio del Vangelo con la testimonianza delle opere di giustizia e di solidarietà, che andrebbe riscoperta “qui ed ora” la funzione diaconale dell’impegno pubblico, funzione che deve evidenziare il servizio all’uo­mo nel rispetto di alcuni fondamentali valori, quali il rispetto per la dignità umana, la creazione delle condizioni concrete che consentono a tutti la partecipazione attiva alla vita sociale, il servizio a favore degli svantaggiati, l’impegno per una sem­pre più equa distribuzione delle risorse ed una possibilità di lavoro per tutti.

 

E occorre allargare l’attenzione ed affrontare con la stessa premura pastorale non solo le problematiche etiche legate all’aborto o alla dispersione degli embrio­ni, ma anche la colpevolmente iniqua distribuzione delle risorse sul pianeta, causa primaria della morte di adulti e bambini per stenti, fame, mancanza di medicinali, carenza di acqua.

 

Un settore della vita della comunità cristiana, nel quale può esplicarsi in forme nuove il ministero diaconale è quello della famiglia. Già nel 1981 Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Familiaris Consor­tio (n. 73), indicava nei diaconi, dopo i presbiteri, i più vicini collaboratori dei vescovi nella pastorale familiare, ag­giungendo che il “sacerdote, come il diacono, deve comportarsi costantemente, nei riguardi delle famiglie come padre, fratello, pastore e maestro…”.  Le Premesse alla I^ edizione italia­na (1979) del Rituale su l’Or
dinazione dei Vescovi, dei Presbite­ri e dei diaconi, delineavano con chiarezza e profondità questo aspetto ministeriale dei diaconi che, a motivo della comune chia­mata al servizio, sono speciale espressione di tale vocazione, co­me ministri della carità, come segno della dimensione domestica della chiesa (espressione che è scomparsa nella II^ edizione del 1992) e testimoni e promotori del “senso comunitario e dello spiri­to familiare del popolo di Dio”. Si tratta di far crescere sempre di più delle coppie diaconali, che ispirandosi alla fede e alla volontà di vivere seguendo Cristo, possono lavorare per i bisognosi, i poveri, con coloro che non hanno nulla, i bambini senza aiuto, le famigli in difficoltà (economiche e spirituali). In questo servizio riveste un ruolo importante quello della sposa del diacono, con la sua presenza discreta e fattiva. Aver privilegiato in questi anni ai nostri Convegni nazionali e interregionali incontri ad hoc per le spose ha messo in luce l’importanza essenziale da dare ai sentimenti e alle attese della moglie e della famiglia ed ha promosso in diverse diocesi  incontri di mogli durante i quali c’è la possibilità di scambiare idee ed esperienze o anche giornate di spiritualità organizzate appositamente per loro. Qui c’è, d’altra parte, una grande responsabilità per il delegato episcopale e i responsabili della formazione, perché si aprano alle mogli molte possibilità, ad esempio, di seguire i corsi, organizzare incontri e discutere un gran numero di quesiti e problemi. La presenza autentica di chi serve ed ama come Cristo non dimentica mai la delicatezza del rispetto rivolto a ciascuno, nel riconoscimento delle potenzialità di ogni persona.

 

Dunque, in mezzo alle innumerevoli difficoltà e contraddizioni che interpellano i diaconi e sfidano il nostro servizio a Dio e all’uomo, l’ultima parola non può che essere sempre la speranza. Speranza, non certezza assoluta. Una Chiesa che non predicasse più la speranza sarebbe infatti una Chiesa che viene meno a uno dei suoi doveri fondamentali. C’è una dimensione, oltre quella escatologia, della teologia della speranza, basata soprattutto sugli insegnamenti del Concilio Vaticano II, quella della storicità. La speranza è virtù teologale, che ha per oggetto diretto Dio, ma ha anche un suo valore storico. Essa non è semplice attesa, ma anche azione; non rassegnata passività, ma lotta buona per l’edificazione del Regno. Il mondo nuovo comincia già sulla terra, anzi esso è già cominciato con la vita, la morte e la risurrezione di Gesù. Noi siamo già nei tempi escatologici e siamo chiamati a collaborare con Dio nella formazione dei cieli nuovi e della terra nuova. La LG afferma che i cristiani  «questa speranza non devono nasconderla nel segreto del loro cuore, ma con una continua conversione e lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro gli spiriti maligni” (Ef 6,12), devono esprimerla anche attraverso le strutture della vita secolare» (n. 35). Questo impegno, doveroso e ineludibile per tutta la Chiesa, è un invito rivolto anche ai diaconi e alle modalità concrete in cui essi esplicano il loro ministero, anche se non sono chiamati in prima persona a gestire le realtà secolari e politiche. Chiediamo, dunque, al Signore, «Aiutaci a costruire insieme il tuo regno», così come prega la liturgia della Chiesa in una delle sue ultime preghiere eucaristiche; e la costruzione del Regno è compito entusiasmante e gioioso, ma anche faticoso ed esigente, perché richiede la fedeltà incondizionata al Vangelo e la pazienza quotidiana della semina.

 

Al termine di questa considerazio­ne prospettica delle priorità e delle sfide del diaconato nella Chiesa italiana, rimane la consapevolezza di non aver detto tutto quello che c’è di buono già in atto riguardo al nostro ministero. Anni, quelli del postconcilio, veramente di lavoro intenso ed entusiastico, nonostante i limiti, le polemiche, le incompren­sioni. Da questa ricostruzione complessiva, anche se indubbiamente incompleta, c’è forse ancora una lezione da imparare: quella della libera realizzazione e della libera ricerca. La libertà porta spesso con sé il costo di scelte coraggiose e scomode, ma ripaga sempre, magari non nei tempi da noi preventivati, perché – è bene ricordarlo – i tempi appartengono a Dio. Lasciar parlare senza pregiudizi, lasciar discutere per cogliere le ragioni di tutti e raccoglierne le istanze è un segno di rispetto e corresponsabilità  per la vita della Chiesa e insieme di maturità pregante da parte di tutti i componenti il popolo di Dio: un segno di vivacità arricchente e, non necessariamente (come invece spesso si teme) di disor­dine o di anarchia.

 

Avviandomi alla conclusione, mi piace condividere con voi una sottolineatura linguistica a proposito della duplice accezione del verbo “errare”: nel suo uso più comune, questo verbo significa “sbagliare”, “smarrire la strada” o “perdersi”; nell’altro senso, invece, esso comunica l’azione del “camminare” dell’“esplorare”, del “ricercare” la giusta via, senza stancarsi o deporre la speranza. Segnati, come tutti, dalla fragilità inscritta nella condizione umana, lungo questi anni noi diaconi abbiamo certamente “errato” nel primo senso, sotto il peso delle prove che incrociano la vita personale e l’impegno ecclesiale. Non è cosa da poco, però, acquisire la giusta consapevolezza che il nostro “errare” sia avvenuto soprattutto nel secondo senso, ossia alla sincera ricerca del volto più autentico del ministero diaconale, in questi decenni di difficile transizione della vita ecclesiale. E in questo senso vogliamo errare ancora, in nome della speranza. Il documento che preparava il conve­gno di Verona, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, conteneva un passaggio prezioso che può aiutarci a concludere efficacemente la nostra riflessione: «Nella stessa esperienza credente – si legge – deve essere custodita sia la parola di Dio e i gesti sacramentali della fede, sia l’impegno costante per trasformare il mondo attuale, come anticipazio­ne della speranza futura». Un diaconato più aderente è possibile, sempre possibile; e se è possibile, allora – insieme – bisogna realizzarlo. La situazione profondamente cambiata rispetto ai tempi passati invoca da parte della Chiesa e soprattutto da parte nostra un supplemento di coraggio e di parresia. Contro le molteplici situazioni di egoismo e di sopraffa­zione di questo tempo, i diaconi devono essere capaci di affrontare in nome della speranza e di generare – coi loro gesti concreti –
pensieri freschi e nuovi nell’animo di tutti, in particolare dei diseredati e dei sofferenti. Devono essere capaci di vincere, innanzitutto, il senso di apatia ed assuefazione che sembra pervadere l’odierno tessuto sociale, intaccando talvolta anche la vita ecclesiale ed insinuandosi spesso, purtroppo succede, anche nella mentalità di alcuni diaconi. La lezione del passato, tutta la lezione che preme alle nostre spalle, ha bisogno di essere ripresa in mano, con spi­rito nuovo e rinnovato entusiasmo. La Chiesa o è mistero di comunione, missione, annuncio profetico, società alternativa, comunità che meraviglia, avanguardia dell’umanità, ini­zio e prefigurazione del mondo nuovo… o non è! Chiamata a essere «umanità riconciliata e riconciliante», la Chiesa si incammina verso il futuro prossimo con la consapevolezza che la speranza, in tutta la sua ricchezza e la sua forza, è una specificità del cristiano, e con la certezza che, come ha detto ancora l’ultimo concilio riecheggiando una nota frase di Teilhard de Chardin, il futuro sarà di coloro che avranno presentato al mondo il più grande e più probante messaggio di speranza – e i diaconi sono anche chiamati a questo. L’appello ad “osare il coraggio della speranza”, del documento Per un Paese solidale, coinvolgendo nella passione dell’annuncio tutte le categorie dei credenti, ci conferma nella scelta del servizio alla vita buona Vangelo e dei poveri[13], mentre come diaconi siamo chiamati sempre più a conformarci a Cristo, per essere davvero – nella Chiesa e nella società – gli eletti dispensatori della carità[14].



[1] Alla base di tutto, deve essere con insistenza ribadito il necessario primato dell’evangelizzazione, che solleciti una salutare inquietudine di fronte alle mutate condizioni e quindi alle carenze evidenti di certi metodi del passato. Se ci si limitasse ancora a concentrare l’attenzione quasi uni­camente sulla prassi sacramentale, si finirebbe col ridurre il sacramento, avulso dal suo vitale contesto di fede, a un puro gesto di pratica esteriore, senza riflessi concreti e fecondi nella vita. Solo una convinzione profonda di tutti gli operatori della pastorale sulla priorità dell’evangelizza­zione –  convinzione continuamente rassodata nella meditazione, nello studio e nell’impegno quotidiano – riuscirà a superare abitudini e stanchezze, e a imprimere una spinta vigorosa all’azione apostolica della Chiesa in tutti i suoi settori. (n. 6l)

[2] La «nuova evangelizzazione» – si  legge al n. 10 – cui Giovanni Paolo II chiama con insistenza la Chiesa, consiste anzitutto nell’accompagnare chi viene toccato dalla testimonianza dell’amo­re a percorrere l’itinerario che conduce, non arbitraria­mente ma per logica interna dello stesso amore cristiano, alla confessione esplicita della fede e all’appartenenza piena alla Chiesa. (n. 10). E ancora, al n. 24: La carità cristiana ha in se stessa una grande forza evangelizzatrice. Nella misura in cui sa farsi segno e trasparenza dell’amore di Dio, apre mente e cuore all’annuncio della parola di verità. Desideroso di autenticità e di concretezza, l’uomo di oggi – come ha detto Paolo VI – apprezza di più i testimoni che i maestri e, in genere, solo dopo esser stato raggiunto dal segno tangibile della carità si lascia guidare a scoprire la profondità e le esigenze dell’amore di Dio. Del resto, ha fatto così anche il Cristo, unendo il gesto dell’a­more concreto alla parola della verità. (n. 24)

[3] Concepire un mondo possibile significa anche concepire delle procedure per operare su di esse, cfr. J. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Bari 2000, p. 131

[4] Paolo VI, “Evangelii Nuntiandi”, 1975: L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri.

[5] Particolare importanza assume la formazione dei seminaristi, dei diaconi e dei presbiteri al ruolo di educatori. La vicinanza quotidiana dei sacerdoti alle famiglie li rende per eccellenza i formatori dei formatori e le guide spirituali che, nella comunità, sostengono il cammino della fede di ogni battezzato.

[6] I. IL MEZZOGIORNO ALLE PRESE CON VECCHIE E NUOVE EMERGENZE, 10. Povertà, disoccupazione, emigrazione: La povertà – scrive l’episcopato – è un fenomeno generale complesso e multidimensionale, che tocca aree dell’intero Paese. I dati negativi si concentrano però nelle regioni del Mezzogiorno, caratterizzate dalla presenza di molte famiglie monoreddito, con un alto numero di componenti a carico, con scarse relazioni sociali ed elevati tassi di disoccupazione. Questa situazione è favorita dalla bassa crescita economica e da una stagnante domanda di lavoro, che a loro volta provocano nuove povertà e accentuano il disagio sociale[6].

 

[7] CEI, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno,  (21-02-2010), INVITO AL CORAGGIO E ALLA SPERANZA, 20 …e un appello

[8]  15 – Condivisione ecclesiale

[9] Cfr. Orientamenti e Norme. I diaconi permanenti in Italia, N, n. 9

[10] INTRODUZIONE , 3. L’Eucaristia: fonte e culmine della nostra condivisione: “…donare senza trattenere per sé: questo è lo specifico servizio dei discepoli di Gesù verso il mondo, un servizio la cui qualità ed efficacia non dipendono da un calcolo umano. Si tratta, infatti, non soltanto del “fare” a cui sono abituati i governanti delle nazioni, ma del “consegnare a Dio” − nello spazio orante del discernimento spirituale e pastorale − tutto ciò che si condivide con la gente, cioè i pochi pani e i pochi pesci. In questa condivisione riuscita l’Eucaristia si rivela veramente come la fonte e il compimento della vita della Chiesa”

[11] I. IL MEZZOGIORNO ALLE PRESE CON VECCHIE E NUOVE EMERGENZE, 4. Che cosa è cambiato in venti anni: Profondi cambiamenti hanno segnato in questi ultimi venti anni il quadro generale internazionale, nazionale e anche quello del Mezzogiorno. È cambiato il rapporto con le sponde orientali e meridionali del Mediterraneo. La massiccia immigrazione dall’Europa dell’Est, dall’Africa e dall’Asia ha reso urgenti nuove forme di solidarietà. Molto spesso proprio il Sud è il primo approdo della speranza per migliaia di immigrati e costituisce il laboratorio ecclesiale in cui si tenta, dopo aver assicurato accoglienza, soccorso e ospitalità, un discernimento cristiano, un percorso di giustizia e promozione umana e un incontro con le religioni professate dagli immigrati e dai profughi.

[12] 14. La missione pastorale della Chiesa

[13] CEI, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno,  (21-02-2010), INVITO AL CORAGGIO E ALLA SPERANZA, 20 …e un appello

[14] Ibidem

Diác. Enzo Petrolino

Presidente de la Comunità del Diaconato in Italia

Referente Nacional del CIDAL en Italia

Gallico Marina – R.C., Italia, 19 de octubre de 2011

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